Summary: | <p>Il terrore, dall’11 settembre in poi si presenta come un sintomo di un mondo globalizzato che non è riuscito a venire a patti con il selvaggio e con il barbaro: l’avidità, la cupidigia, lo sfruttamento, la divisione della società in classi, l’appropriazione di ricchezza, la dominazione.</p><p>I terroristi generalmente si esprimono in termini religiosi. Il nemico è visto come il “diavolo” e il terrorista si percepisce come l’agente “eroico” del divino. Il criminale cerca il proprio tornaconto personale, mentre il terrorista, in nome di un transpersonale valore collettivo - una religione, un’identità etnica o nazionale, una visione “patriottica”, ecc - sacrifica la propria vita personale al suo, sebbene idiosincratico e perverso, presunto “dio”. Purezza e visione ideativa dell’altro. I membri di un gruppo lasciano che le differenze individuali sfumino nel processo d’identificazione narcisistica l’uno con l’altro, ove la differenza e l’alterità divengono l’elemento impuro. Lo sporco è un fattore che è stato da tempo definito in senso culturale e storico come ciò che si trova nel posto sbagliato e che non può quindi essere permesso se un modello o un sistema simbolico devono continuare a esistere. L’incertezza, l’insicurezza e l’ambivalenza non possono essere sopportate ma devono essere eliminate come qualcosa di impuro così da poter creare un universo omogeneo e coerente da un punto di vista simbolico. Ciò avviene soprattutto nell’Islam. Tale fantasia narcisistica di rispecchiamento e di purezza, provoca un’enorme aggressività persecutoria nei confronti del differente che minaccerebbe la coesione interna </p><p>In alcuni gruppi il “noi” che caratterizza l’appartenenza a una comunità è sostituito dal “noi siamo” che, quasi necessariamente, comporta intolleranza e potenziale violenza rispetto a coloro che appartengono all’altro gruppo. L’ideologia del gruppo definisce ciò che è buono e ciò che è cattivo: le regole del gruppo prendono il posto del Super-Io individuale. Molte ideologie di questi gruppi di adolescenti sono incoerenti e contraddittorie e spesso hanno bisogno che la loro presunta verità venga assicurata attraverso la violenza. L’aggressività e la violenza possono essere incrementate quando parti di se stessi insopportabili, deboli, disprezzate e disperate, emozioni e paure, sono proiettate sull’oggetto esterno, con la necessità di dover essere poi esorcizzate attraverso l’attacco alle vittime. Così lo jiahdista corre il pericolo di perdere completamente qualsiasi contatto interno con tali parti di sé proiettate perché se ne vergogna: il vuoto interiore che ne risulta è colmato da cliché presi da ideologie radicali, politiche o religiose.</p><p>La violenza è associata alla minaccia dell’identità e della coesione del gruppo di appartenenza, del proprio clan endogamico; e allora si sviluppa violenza contro l’ignoto, l’altro da sé, l’esogamico sconosciuto che, in quanto tale, è destrutturante per coloro che sono fermi alla posizione schizoparanoidea. Nel ben noto processo della proiezione, l’altro viene usato per preservare il senso di Sé, evitando la frustrazione e regolando le emozioni negative. Le parti indegne e umiliate del proprio Sé possono venire proiettate sugli altri e, nel caso peggiore, può emergere un desiderio di liberarsi di tali parti di Sé indesiderate attraverso azioni violente, fino a far fuori il proprio nemico costruito come capro espiatorio.</p><p>La violenza che umilia, la rabbia indotta dalla vergogna, la regressione, l’idealizzazione del Sé attraverso la fusione con l’oggetto idealizzato e la proiezione degli aspetti negativi: ecco la costellazione che provoca odio nell’individuo e nel grande gruppo, fino a causare una trasmissione transgenerazionale della ricerca di vendetta. Sembra infatti possa esser sufficiente identificarsi con il processo di vittimizzazione di un gruppo perché si verifichi la violenza. La necessità di nemici (sia interni che esterni) pervade la vita di tali gruppi i cui membri divengono incapaci di dare un significato all’esperienza, sparisce l’empatia con l’altro e nel gruppo compare l’egocentrismo. Un gruppo del genere regredisce a modi di funzionamento più primitivi, costruendo appunto un’identità sul “noi siamo” differenti dagli altri, ricercando un altro gruppo in cui depositare le parti indesiderate, altro gruppo che si configura così come il nemico, un ottimo WC in cui evacuare la propria distruttività senza soccombere a colpa persecutoria, anzi, con il plauso del resto del proprio gruppo e con il premio divino.</p><p>Il mondo diviene lo scenario per giocare sempre secondo lo stesso coattivo copione di “vittima-carnefice”, per cui la persona colpita s’identifica in modo alternato ora con l’uno, ora con l’altro. Il gruppo ha così sviluppato una mancanza di pensiero e condurre alla violenza e alla distruzione nei riguardi di coloro che hanno ricevuto le proiezioni. La sofferenza non riconosciuta non è metabolizzabile e quindi viene trasmessa attraverso le generazioni, causando continue coazioni a ripetere.</p><p>C’è una bomba demografica di giovani senza lavoro, d’interi gruppi umiliati, feriti narcisisticamente e animati da intenti di vendetta per il male che è stato loro fatto, anche a livello transgenerazionale. Ci si illude di curare le ferite del proprio gruppo proiettando parti di sé non integrate e immagini oggettuali su “serbatoi idonei”, che sono generalmente costituiti da grandi gruppi confinanti, percepiti, tramite tale identificazione proiettiva, come nemici e cattivi. Ecco perché le società sembrano aver bisogno sia di alleati che di nemici. Il capitano Achab, in Moby Dick, con il suo odio fanatico della Balena Bianca, è un paradigma del terrorista moderno, animato da fanatico risentimento.</p><p>Tuttavia le azioni terroristiche sono riconducibili, più alla radice, soprattutto a un bisogno di ri-trovare il Sé perdendolo, cancellandone i confini per fondersi con un’entità più grande attraverso l’immersione in una ideologia. Un bisogno guidato dalle esigenze sottostanti di preservare la purezza del Sé dalla contaminazione dell’impurità che è attribuita a un Altro che diventa “Il Nemico”. </p><p>Difronte ai fatti di terrorismo imperversanti in ogni parte del pianeta, a noi psicoterapeuti, nel nostro piccolo, non rimane che da proporre un’arma speciale: il pensiero contro il terrore. Il pensiero vero non ha bisogno di nessuno che lo pensi: esso attende la venuta del pensatore che acquisti significato attraverso il pensiero vero e che in tal modo definisca e narri un Significato. Il pensiero permette la mentalizzazione, l’integrazione di vissuti cosiddetti negativi, anche traumatici, permettendo di aprirsi alla riparazione e non alla ritorsione, permettendo d’integrare anche la nostra Ombra, ricercando un nuovo Senso. L’Ombra contiene tutte quelle parti del nostro essere che abbiamo cercato di nascondere o negare; comprende quegli aspetti oscuri, non messi in luce, che non riteniamo accettabili da parte della nostra famiglia, degli amici, e soprattutto di noi stessi.</p><p>Eppure dobbiamo far in modo che la luce che brilla nell’oscurità non solo venga compresa dall’oscurità, ma che essa stessa comprenda l’oscurità (Jung).</p><p>Ogni situazione politica è espressione di un parallelo problema psichico presente in milioni d’individui. Il comprendere le motivazioni eziologiche inconsce è finalizzato a proporre soluzioni sostenibili e a mettere in atto politiche più efficaci: ecco perché da anni svolgiamo i nostri eventi nei principali luoghi della politica.</p><p>Tuttavia ciò non basterebbe: il conflitto proiettato all’esterno, per essere sanato deve ritornare nella psiche del singolo, da dove inconsciamente era nato, ecco allora il senso del monito socratico: “Chi vuol muovere il mondo, muova prima se stesso”. Se il singolo non è realmente rinnovato nello spirito, neppure la società può rinnovarsi, poiché essa consiste nella somma degli individui. E allora l’unica rivoluzione possibile è quella interiore che parte dal conoscere se stessi. trova l’unica speranza di vittoria contro il più vecchio nemico dell’uomo: la sua Vanità, in sé mortifera, sterile, distruttiva. “Conoscere se stessi” vuol dire anche e soprattutto scoprire il Significato e il Senso della propria esistenza, la propria personale “entelechìa”, giacché ogni nevrosi è, in ultima analisi, una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio significato. Un Senso che può esser ritrovato incontrando l’Altro, chioso il mio editoriale al numero di giugno dell’IJPE invitando tutti noi a un cammino di cambiamento di punto di vista - “con-versione” - citando Jung:</p><p>“Non ti accorgi che l’Altro è anche dentro di te. Pensi invece che venga in qualche modo da fuori e ritieni di scorgerlo anche nelle opinioni e azioni del tuo prossimo che ti ripugnano. Lì lo combatti, essendo del tutto accecato. Chi invece accetta l’Altro che gli viene incontro, perché è presente anche in lui, non lotta più, ma guarda dentro di sé e tace” (C. G. Jung, <em>Libro Rosso</em>, p. 297, Torino, Bollati Boringhieri, 2010).</p><p> Roma, 17 giugno 2016</p>
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