Summary: | Claude Vigée: il primo compito del traduttore sta nell’ascolto del testo poetico da tradurre
(possibilmente ad alta voce) in modo da lasciarsi compenetrare dal ritmo, da condividerne il
respiro, la pulsazione per poterlo rendere vivo attraverso il proprio corpo, nella propria lingua,
prima ancora di una comprensione vera e propria, o almeno di una consapevolezza razionale:
si tratta piuttosto di una esperienza esistenziale che conduce ad una conversione interiore, ad
una teshouvah - e come tutte le conversioni, difficile, angosciosa, a volte drammatica o
disperata - ma sempre ispirata all’onestà, all’umiltà e alla gratitudine per il dono ricevuto
dell’altra lingua, per l’accesso al mistero di un opera in partenza enigmatica, impenetrabile,
ostica. Il lavoro, quindi, ha più a che fare con la pratica artigianale, con il savoir-faire, con
l’abilità, l’attenzione, l’agilità, il tatto che non con un sapere teorico acquisito nei libri ed una
padronanza di tecniche linguistiche fissate a priori. È fondamentale per il traduttore sentirsi
“straniero” perfino nella propria lingua, tanto da scoprirne, a contatto con il testo e la lingua
da tradurre, nuove potenzialità, armoniche inedite, impensabili prima di quell’incontro: come
avviene per il “seme” di un albero staccatosi dal tronco per fecondare un’altra pianta... Non
c’è, da parte dell’autentico traduttore, un desiderio di possesso o di dominazione, ma una
disponibilità senza riserve al richiamo, alla “vocazione” (si pensi a Giacobbe al guado di
Yabbok), un abbandono fiducioso senza restrizioni per una reciproca ed imprevedibile
trasformazione.
Jean-Yves Masson: l’atto di tradurre non è poi così innocente e disinteressato. Alla base della
traduzione, c’è sempre una violenza, un ratto, la volontà di strappare un componimento
poetico - ma è analogo per un testo in prosa - alla sua lingua. Pretendere che il testo tradotto
sia lo stesso, identico all’originale, non è forse commettere un abuso, mentre la poesia tradotta
(tradita?) ha perso molto nel passaggio da una lingua all’altra? Tuttavia, chi non ammettesse
quella perdita non potrebbe tradurre. La perdita inevitabile fa parte del processo stesso della
traduzione. Nondimeno ci si può chiedere perché imporre ai testi un trattamento così
violento? I motivi sono tanti e diversi fra loro. Un primo motivo, in particolare per il poeta
traduttore, è quello di assimilare il testo, ma pure di mettere alla prova la sua resistenza: per
cui Goethe dichiarava che l’importante in un’opera poetica è quello che resiste alla
traduzione. Non è necessario di essere poeta per tradurre la poesia, ma il tradurre è senz’altro
un mezzo per scrivere poesia: alcuni poeti sono tali proprio grazie alla traduzione. Un secondo
motivo è il desiderio di appropriazione e di sfida suscitato dal fascino o dall’effetto
provocatorio del testo: anche se il voler fare suo il testo altrui è un’aspirazione vana, destinata
a rimanere frustrata, l’innesto nella propria lingua è sempre l’occasione di un suo
arricchimento. Un altro motivo, è il voler tradurre per polemica, contro la propria letteratura,
contro le posizioni teoriche e i dibattiti tecnici (nella Francia degli anni ‘75-’80), per cercare
“altrove”, nei paesi stranieri (in Italia, in Spagna, in Germania, in Grecia) ispirazione,
nutrimento, stimolo estetico, senza escludere l’intento altruistico di accogliere nella propria
cultura scrittori stranieri ignorati. Ma il traduttore non può sottrarsi all’assillante, inquietante
sospetto nei confronti del proprio lavoro, dell’autore stesso, delle altre traduzioni: onde
l’obbligo di tradurre, molto, a lungo, uno stesso autore, in prospettiva e alla luce di tutta
l’opera, nell’interazione tra lettura e scrittura (tradurre è leggere scrivendo o scrivere
leggendo), tra interpretazione e ricreazione. Per cui, se la traduzione nella sua ambizione
totalizzante corre il rischio della vertigine (con perdita per il traduttore della propria identità),
soltanto un approccio critico, un preciso progetto ermeneutico e poetico ne garantiscono il
valore..
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